Arti, mestieri e professioni del passato  

                Arti, mestieri e professioni del XX secolo 

       Con l'incremento della popolazione cominciò ad avvertirsi sempre più disperata la necessità di trovare uno sbocco ai più elementari bisogni di sostentamento, la certezza di un lavoro ed un tetto sotto cui far crescere in maniera dignitosa la famiglia. Sul finire del XIX secolo, ma soprattutto nei primi decenni del '900, il problema assunse toni così drammatici da costringere i più a cercare una via d'uscita nell'esodo verso paesi lontani, spesso oltre oceano. Per quelli che rimanevano si prospettavano due sole alternative: espletare una attività in proprio o andare ad ingrossare le fila dei poveri contadini, manovali e braccianti agricoli che costituivano un mondo a se stante legato alla dura vita di campagna. 

       Per gli spiriti indipendenti valse, invece, l'antico detto secondo cui il bisogno aguzza l'ingegno. Fiorirono così le più disparate attività commerciali e professionali ed i mestieri più umili che tuttavia vennero esercitati con straordinaria genialità. Erano tempi, quelli, in cui bisognava mettere a frutto qualsiasi idea buona, qualsiasi inventiva per assicurarsi la sopravvivenza in un mondo in cui il benessere era per pochi benestanti ed il lavoro nei campi dipendeva dall'umore del padrone che la mattina presto, in piazza, come in un mercato, tramite i suoi "curatoli" (fattori o amministratori), sceglieva e reclutava la manodopera secondo criteri di convenienza in termini di orario e di paga.  

       Accanto agli ormai tradizionali mestieri, per i quali rinviamo al capitolo precedente "Arti, mestieri e professioni del XIX secolo", sorsero nuove figure di maestranze che scriveranno pagine bellissime di alta scuola artigianale tanto da diventare termini di paragone anche al di fuori della dura realtà locale e da essere annoverate ancora oggi tra i più inimitabili professionisti che del loro mestiere seppero fare un'arte: così è per la costruzione di botti in legno (nel secolo precedente, già abili maestri d'ascia per la costruzione di barche, tra cui "la capaciota", ed ora bottai fini intenditori, tra i quali eccelsero i fratelli Cappello); per la congia degli otri in pelle (in cui si distinse Rosario Riccobono, noto come "u zu Rusariu Picuneddu"); per il lavoro del "consalemme" (riparazione di oggetti in terracotta mediante particolari tecniche di graffaggio a mano, per la quale si ricorda Giuseppe Sorcigli, inteso "u zu Pippinu Fulla-Fulla); per la sarcitura delle smagliature delle calze da donna, esercitata in forma familiare dalla signora Lo Piccolo, dagli anni '50 agli inizi del consumismo (anni '60 circa), in un laboratorio posto al secondo piano di una abitazione di questo corso principale.

       Particolare menzione meritano due figure di rilievo: "u zu Raziu Custantinu" (Erasmo Margarini) e "Paliddazzu" (Francesco Paolo Giambona) che possiamo considerare i più alti rappresentanti nell'arte della cottura di cibi d'interesse prettamente locale, ciascuno nella propria specialità. E chi, anche tra i giovani, non ha mai sentito parlare, per esempio, delle famose "quaglie" (melanzane nostrane tagliate a spicchi e fritte interamente in abbondante olio d'oliva) o della "pasta di San Giuseppe", piatti ai quali solo "u zu Raziu" sapeva conferire un sapore particolare con la preparazione e con l'uso di ingredienti sapientemente dosati? Molti, tra gli anziani, ricorderanno inoltre gli squisiti "quarumi" (interiora di vitello bollite) o "u sangunazzu" (sorta di salsiccia ottenuta con sangue bollito di vitello che, per inciso, tra le mura domestiche veniva affettato, soffritto e condito con aglio e aromi diversi, zucchero e scorzette di mandarino, e considerato dalle buone forchette un boccone molto prelibato) o il delizioso "broru lestu" (brodo con bollito di carne) che "u zu Paulu" preparava con aromi diversi in capaci "quarare" davanti il suo esercizio di carnezzeria nei giorni di macellazione (una o due volte al mese).

       Tutti sapori d'altri tempi che lasciano intravedere uno scorcio di vita fatta di cose semplici e genuine, un mondo ormai per sempre perduto che tuttavia è parte inscindibile della nostra memoria storica.

       Ma in questa passerella di immagini ancora vivide non potevamo certo dimenticare "u zu Paliddu Minsuddu" (Francesco Paolo Siino) del quale si ricordano con piacere e con tanta nostalgia le gran fette di melloni rossi e bianchi o il polpo bollito tagliato a pezzi su grandi vassoi in ceramica variamente colorati, venduti in questa centralissima piazza a qualsiasi ora del giorno e della notte.

       Ed attorno a queste figure davvero caratteristiche è possibile cogliere uno scorcio di dolente umanità costituita da piccoli venditori ambulanti che per sbarcare il lunario dovettero adattarsi alle necessità del momento: fu facile così vedere per le vie del paese, per esempio, il venditore di fave "a cunigghieddu" (termine che richiama alla memoria il modo tipico di mangiare dei conigli e, nel caso, pizzicare con gli incisivi le fave fresche di stagione facendole scivolare in bocca con una leggera pressione laterale del pollice e dell'indice), e di "piranchedde cauri cauri" (pannocchie bollite ed ancora calde).

       E certo non possiamo prescindere dal citare un’altra professione di grande interesse sociale che per quasi un trentennio, sul finire degli anni ’40, nell’immediato dopoguerra, vide fiorire il commercio dei prodotti agricoli più tipici di Capaci: olive, mandorle e carrube. Erano anni duri e difficili che anzicchè scoraggiare alimentarono il desiderio di rinascita. A tale categoria appartenevano alcuni commercianti di media estrazione sociale che, in condizioni ambientali e situazione economica assai precari, ebbero il merito di investire i propri risparmi nell’acquisto preventivo (ancora sull’albero), nella raccolta, nella lavorazione e nella vendita di quei prodotti impiegando parecchia manodopera locale maschile e femminile e contribuendo ad alleviare il dramma della dilagante disoccupazione.

       Molti anziani ricorderanno ancora oggi le mandorle sgusciate (“’a ‘ntrita”) e le carrube (“lardare” o “manse”) distese in ampi piazzali ad asciugare al sole nella speranza e con la muta preghiera che, trattandosi di prodotti soggetti ad infradicire a contatto con l’acqua, un improvviso temporale non  venisse ad annientare i tanti sacrifici e le fiduciose aspettative riposte in essi.

       Fra le figure più note richiamiamo alla memoria “u zu Paliddu Bannera” (Francesco Paolo Costanzo, padre dello scrivente) e “u zu 'ntoni Bozza Bozza” (Antonio Inzirillo) ai quali va il merito di avere atteso assiduamente a quella prestigiosa attività con la dedizione e la passione che hanno sempre contraddistinto la nostra migliore tradizione commerciale legata alla produzione agricola.