Un'oasi nel blu
Isola delle Femmine o di Fuori
Nel tratto di mare compreso tra Punta Raisi e Capo Gallo, situata poco più ad
ovest del piccolo centro marinaro, si specchia
l'omonima
Isola delle
Femmine localmente nota anche come Isola di Fuori. Dista dalla costa poco più
di 800 metri e si estende per una superficie di oltre 14 kmq. Presenta una forma
molto allungata (575 mt. circa) ed ha una larghezza di appena 325 mt. mentre verso nord è sovrastata da una zona collinare
sulla cui sommità, a quota 35 metri circa sul livello del mare, si ergono i ruderi di una torre a base quadrata risalente al XVI secolo. Tale costruzione,
inserita come fortezza nel sistema difensivo più avanzato delle torri costiere contro il dilagare delle incursioni da parte di pirati (vedi il capitolo "Le tre
Torri"), in corrispondenza ed al di sopra della
ripida scogliera del versante nord, presenta un muro quasi intatto visibile dal
mare e dalla
terraferma a grandi distanze.
Si direbbe però che l'isola, spoglia di vegetazione arborea, e la torre, con le sue possenti mura (circa 2 metri di spessore) ormai in gran parte diroccate, siano l'una il complemento dell'altra e che entrambe vivano in simbiosi, immutate e immutabili, dalla notte dei tempi.
Risalgono al periodo ellenistico i resti di sette
"cetarie", vasche
rivestite con diversi strati di cocciopesto predisposte per
la
preparazione di una apprezzata salsa di pesce, il garum, composta di intestini di
sgombri o di tonni, talvolta mescolata con piccoli pesci interi (sarde od
acciughe), lasciati a
macerare con il sale al calore del sole
per circa due mesi.
AI termine il prodotto veniva filtrato mediante procedimento di
separazione del «fiore» dal
<<liquido>>, di minor pregio.
E’
probabile che lo stabilimento, oltre alla sua lavorazione,
provvedesse anche alla conservazione delle eccedenze ed alla
salagione del pescato e,
stante l’ottima accoglienza riservata in particolare dalla cucina romana, curasse la
confezione, il modo di presentazione, la natura del pesce e le
diverse parti del
prodotto.
Il garum è stato oggetto di un lucroso monopolio
soprattutto in età ellenistica, ma ha continuato ad essere prodotto in ingenti quantità
ed esportato in caratteristiche anfore in tutto il mediterraneo
anche sotto la dominazione romana
ed in età imperiale.
La
tipica salsa veniva consumata come condimento, talvolta miscelandola con vino, olio,
aceto o acqua e pare che l'invecchiamento ne migliorasse la qualità. La più
prelibata era ritenuta quella prodotta con viscere e sangue di tonno.
"A parte i profumi, non c'è quasi altro liquido che sia divenuto più prezioso di
questo". (Plinio, Naturalis Historia, XXXI. 93 sgg).
La traccia dello stabilimento per la sua lavorazione ed il ritrovamento nel mare antistante di ceppi di ancore in piombo e resti di anfore puniche e romane rendono evidente l'importanza attribuita in quel tempo all'isola e conferiscono al luogo una grande rinomanza archeologica.
Delle
testimonianze storiche lasciate dall’uomo sull’isola la più evidente è
sicuramente la torre di avvistamento costruita alla fine del XVI secolo su
progetto dell’architetto toscano Camillo Camilliani. Essa venne edificata nel
punto più elevato dell’isola in modo da potere avvistare con maggiore anticipo
possibile le vele dei pirati che partendo dal nordafrica o dalla vicina Isola
di Ustica costituirono una costante minaccia per le popolazioni costiere del Mediterraneo
tra il XV ed il XVII secolo.
La base quadrata, costruita a scarpata in modo da offrire una maggiore
resistenza agli attacchi, al suo interno ospitava la cisterna per l’acqua
potabile che garantiva una notevole scorta del prezioso liquido in caso di
assedio. Il primo piano era destinato ad accogliere le derrate alimentari, il
camino ed i giacigli per i militari della guarnigione, noti come i
“torrari”. Sulla terrazza oltre alle armi da fuoco era sempre presente
il “mazzone”, fascio di legna
pronto ad essere acceso in caso di necessità. Il sistema dei “fani”
era utilizzato dai torrari per le comunicazioni di pericolo: in caso di avvistamento di imbarcazioni
sospette l'allarme veniva dato alle torri costiere e da queste alle popolazioni
dell'interno mediante l'utilizzo di un linguaggio costituito da
convenuti segnali di fuoco o di fumo.
Delle altre caratteristiche parleremo più diffusamente nell'apposito capitolo dedicato alle torri di salvaguardia del territorio.
Qui possiamo senz'altro rilevare che fin
dall'antichità la torre ha esercitato un fascino intenso e
particolare sulla fantasia popolare tanto che attorno alle sue origini sono
fiorite numerose leggende. Quella più nota considera la fortezza come prigione isolata per sole donne. Si racconta infatti di una piccola comunità di donne turche che sarebbero vissute in esilio
in quella struttura da esse stesse costruita. Un'altra
versione vuole che nell'isola si rifugiassero donne dei paesi vicini quando
volevano sfuggire a mariti troppo autoritari o violenti. Ma la più suggestiva è
certamente la
storia di Lucia una bellissima ragazza del paese che, innamorata di un giovane
del luogo, non volle cedere alle profferte amorose di un signore prepotente il quale, vistosi
respinto, per rabbia la fece rapire e segregare in quella torre. La giovane
piuttosto che arrendersi preferì lasciarsi morire di fame e di dolore. Si dice che ancora oggi durante
le giornate di tempesta è possibile udire il
suo disperato lamento echeggiare tra le mura
diroccate della sua prigione pervaso di struggente malinconia.
Una testimonianza di Plinio il Giovane (62 d. C.), in una lettera indirizzata a
Traiano, descrive l'isola "parva et pulcherrima" residenza di fanciulle
bellissime che per la durata di una
luna concedevano le loro
grazie al giovane guerriero che si fosse distinto in battaglia conseguendo la 'Fronda di Palma' (la medaglia d'oro al
valore militare dei nostri giorni). Sembra, però, che in seguito l'isola
divenisse facile preda di pirati saraceni che con periodiche e improvvise
incursioni la spogliarono dei suoi beni fino a trasferire con la forza le fanciulle
residenti in altro luogo del Mar Egeo. Con il trascorrere del tempo
l'isola, ormai deserta, venne ben presto dimenticata. Così delle Femmine rimase solo il
ricordo ed il nome.
La sua presunta origine è,
però, da ricercarsi nel nome latino "Fimis",
traduzione dell'arabo "Fimi" che significa bocca o imboccatura e che
avrebbe indicato il canale che separa l'isola dalla costa (Decreto di privilegio del 1176
nel quale si
legge "Thunnarium
concedimus quae est in insula... quae dicitur Fimi..." e con il quale il re normanno Guglielmo II
detto Il Buono assegnava al primo abate Teobaldo, vescovo di Monreale, la tonnara del feudo di Capaci). Ma è più
accreditata l'ipotesi che la voce araba venisse intesa volgarmente "Fimini" da cui,
per una certa affinità ed assonanza, prevalse a poco a poco la dizione di "Fimmini"
per assumere più tardi la definitiva forma italiana di
"Femmine"; nome che dal nascente borgo marinaro venne esteso anche
all'isola con la distinzione "di Fuori".
Secondo altri autori "Insula Fimi" discenderebbe dal nome del generale Eufemio, governatore bizantino della provincia di Palermo e nobile patriota siciliano, che, alla testa del proprio esercito e con l’aiuto di mercenari saraceni, il 17 giugno 827 sbarcò in Sicilia per liberarla dall’oppressione bizantina e riappropriarsi della sua sovranità. Appare, comunque, arduo riconoscere un nesso anche apparente che leghi i due nomi.
L'isola ha sempre attratto l'interesse dell'uomo ed è stata considerata sin dall'antichità e per tradizione un luogo da impiegare a scopo economico e difensivo grazie alla sua posizione e conformazione.
La parte
meridionale, visibile dalla terraferma, si presenta pianeggiante mentre il
lato opposto, sul versante nord, non visibile da terra, è costituito da pareti
ripide e accidentate, esposte alla violenza del vento e delle mareggiate.
In passato essa era coperta da vegetazione erbacea e arbustiva tipica della macchia mediterranea. Ma è lecito supporre che nel corso dei millenni, alla fine dell'epoca glaciale, lunghi processi di natura tettonica e tensioni genetiche ambientali abbiano determinato il collegamento con la terraferma e favorito, per effetto di accumuli sedimentari, la formazione di depositi stratigrafici di humus sul suo margine con il conseguente sviluppo di una folta vegetazione di alberi a largo fusto in tutta l'isola.
Ancora oggi sono osservabili, in corrispondenza del canale, degli affioramenti rocciosi estesi e ben visibili fino a profondità di circa 40-50m ed interpretabili come spianate prossime al bordo della piattaforma continentale più interna. E' probabile che il successivo distacco sia avvenuto nel periodo di più rapida regressione marina (l'ultima risalirebbe a circa 6000 anni fa), durante la quale l'azione della salsedine combinata con quella eolica e favorita dalla posizione molto scoperta del suolo hanno ridotto l'isola alla conformazione attuale.
Nella traduzione dal latino con annotazioni - ediz.1855 - del "Dizionario
Topografico della Sicilia" dell'abate
benedettino Vito Maria Amico (1697-1762),
lo storico Gioacchino Di
Marzo, sulla scorta delle ipotesi formulate soprattutto dagli scrittori Valguarnera, Bonfiglio e Cascino, riporta la certezza che sull'isoletta, a 700
passi circa dal lido, sorgesse l'antica famosa Mozia e che questa era collegata alla
terraferma attraverso un istmo, ossia quella via subacquea di cui favoleggiavano
gli antichi corrispondente probabilmente alla spianata sopra cennata. Scrive inoltre che,
sulla base delle testimonianze raccolte dal Cluverio, molti studiosi sono convinti che i ruderi, i
frammenti di mattoni, gli avanzi di doccionati rinvenuti sull'isoletta "ci
attestano esser quivi sorta un tempo città non volgare" con chiaro riferimento
alla misteriosa città di Mozia, improvvisamente "scomparsa" nel 397 a.C.
nel corso della spedizione punitiva allestita dagli Ateniesi contro la vicina
Città di Iccara (Carini) per ingraziarsi Segesta e nella quale quasi sicuramente
rimase coinvolta, venendo travolta dagli imprevedibili sviluppi bellici collaterali.
Corre l'obbligo, tuttavia, di avvertire che secondo altri autori "Mozia" è uno dei tanti toponimi usati verso la fine del cinquecento da alcuni storici (tra cui il domenicano Tommaso Fazello) per designare l'Isolotto nella convinzione di avervi individuato la mitica città.
In tempi più recenti l'intervento dell'uomo ha
contribuito a modificare l'aspetto
dell'isola consentendo il suo utilizzo a pascolo di greggi ovini e per la costruzione di un
pozzo-cisterna con relativo abbeveratoio.
Il taglio degli alberi per ricavarne legname, la raccolta indiscriminata delle foglie di Palma nana (Chamaerops humilis) per la fabbricazione artigianale di scope (da cui il nome dialettale di “scupazzu”), gli incendi appiccati per stimolare il rinnovo del pascolo ed in ultimo la scellerata introduzione del Coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus) per scopi venatori, sono tutte azioni che ne hanno gradualmente modificato il profilo vegetale portando la complessità ecologica della primigenia macchia mediterranea all’attuale vegetazione composta prevalentemente da formazioni erbacee e arbustive.
Al fine di tutelarne
l'integrità ambientale e conservarne l'habitat naturale, finalmente, il I° Settembre 1997, con Decreto n.584/44, la Regione Siciliana ha
dichiarato l'isola "Riserva Naturale Orientata"
affidandone la gestione alla
LIPU (Lega Italiana Protezione Uccelli) . Da allora, su una superficie di appena 13 ettari, la vita è riuscita
ad esprimersi in una sorprendente ricchezza e varietà di specie botaniche e faunistiche
fortemente legate da complesse ed invisibili relazioni.
Per evitare danni all'ambiente e meglio proteggere il delicato equilibrio del suo ecosistema il regolamento della Riserva permette la pratica dell'escursionismo a condizioni che vengano osservati percorsi definiti ed eventuali limitazioni di frequenza.
Attenti studi e meticolose osservazioni condotti da personale qualificato della LIPU hanno permesso di ricostruire l'affascinante mondo geomorfologico e biogenetico che si esprime in forme e aspetti diversi e nelle più sorprendenti varietà in tutta l'area protetta.