La Storia

      Un pò di storia 

     C'era una volta...

       Così iniziano tutte le favole che non trovano una precisa collocazione nel tempo e così inizierebbe la storia di un piccolo paese situato tra montagna e mare alle porte della Città di Palermo se, per fortuna, la sua identità e ubicazione non fossero rivelate da alcune testimonianze che ne fanno ascendere gli inizi ai primi anni del cinquecento.

     E' Capaci.

   Il centro abitato si sviluppa lungo un asse stradale molto antico, di epoca romana, che collega il Capoluogo con le città più importanti della Sicilia Occidentale: Trapani e Marsala.

     Il suo nucleo originale è sorto intorno al 1523 ai piedi della Montagnola Santa Rosalia, sovrastata dalle balze concave della "Quarara", (nella zona  che un buon parroco di memoria recente, Don Antonino Monteleone, soleva  chiamare affettuosamente "Congo"); verso la metà dello stesso anno risalgono le prime fondamenta della Chiesa Madre, centro di primario interesse religioso, artistico e culturale nonchè memoria storica di sicuro riferimento.

     La datazione di questo monumento non è confortata da alcuna fonte storica. Tuttavia la ottagonalità della viabilità secondaria dei quartieri abitativi che si affacciano sulla SS 113, compreso il centro storico, ed, in particolare, il taglio della pietra di roccia su cui poggiano alcuni elementi strutturali della Chiesa e delle abitazioni attigue, nonchè l'apertura d'ingresso originaria, conservata fino ai nostri giorni come apertura secondaria, sono chiare testimonianze delle sue origini primo cinquecento.

     Numerosi reperti archeologici ancora da analizzare e collocare cronologicamente testimoniano un passato preistorico particolarmente interessante mentre è certo che il  primo insediamento stabile risale al 15 settembre 1241, data che segna il passaggio dal feudo al casale e che prelude alla fondazione dell'odierna cittadina.   

     In quel tempo quella fascia di terra che si estende dal promontorio di Punta Raisi alla Cala di Sferracavallo, comprendendovi anche il territorio di Isola delle Femmine, era occupata quasi per intero da boschi di querce ed attraversata nel bel mezzo da una trazzera tipicamente interpoderale che costituiva l'unica strada di collegamento con città e paesi situati nelle direzioni est ed ovest.

      Più tardi, nei primi decenni del XVI secolo, con la riunificazione dei vari possedimenti in un'unica baronìa e, soprattutto, con l'elevazione del territorio a Contea sotto il nuovo vessillo di casa Pilo (22 ottobre 1625), l'agricoltura divenne l'attività primaria.

      Mandorle, olive e carrubbe assieme ai fichidindia ed alla rinomata manna furono i prodotti migliori e più apprezzati ovunque vennero esportati e costituirono vanto e orgoglio degli abitanti di Capaci. 

     Anche la pesca conobbe una attività molto redditizia. Essa venne praticata soprattutto lungo la fascia costiera entro ristretti confini marittimi ma ben presto, con l'ausilio di barche sempre più leggere, veloci, resistenti, facilmente governabili con qualsiasi tipo di mare, potè estendersi sempre più lontano fino a raggiungere le coste dell'Africa settentrionale. E Susa nel Golfo di Hammamet, in Tunisia, ancor oggi reca la testimonianza di un intero quartiere che porta il nome di Capaci.

       Ragioni logistiche indussero quindi un piccolo nucleo di pescatori ad insediarsi stabilmente nell'insenatura, oggi porto, di Isola delle Femmine ove costituirono quel borgo marinaro che nel giugno 1854 con regio decreto acquistò la propria indipendenza divenendo Comune autonomo a partire dal 1° gennaio 1855.

       Sembrerebbe il prologo di una favola; Ma, si sa, tutto è relativo a questo mondo.

       Fino a circa 50 anni fa tutto il litorale era coperto da grandi dune di sabbia finissima su cui svettavano verdi e folti canneti conferendo a quell'arco di terra e di mare una straordinaria bellezza esotica.

       Nelle notti estive il lento e lungo sciabordio delle onde sulla riva si diffondeva nell'aria simile alle dolci note di una nenia che una mamma bisbiglia all'orecchio della propria bimba nella culla per conciliarne un sonno sereno e riempire di fate i suoi sogni innocenti. Si sarebbe detto che una recondita armonia si levasse da arcane profondità per avvolgere ogni cosa in un soave oblio.

      Non sempre, purtroppo, l'uomo ascolta la voce della parte migliore che è in lui e spesso, anzi, le sue azioni scaturiscono da turbe esistenziali ed autodistruttive nei confronti dell'ambiente in cui vive spianando, scavando, cementificando, erigendo in nome di un falso ed ingannevole benessere che minaccia la sua stessa sopravvivenza.

      Tutto questo stava per accadere su quel lembo di terra che con il trascorrere dei secoli la natura aveva generato quasi per obbedienza al primordiale istinto del bello e del buono insito in tutte le creature dell'universo.  

       Da qualche anno, per fortuna, il rispetto nei confronti di un mondo di cui si andava perdendo persino la memoria è tornato a prevalere. Così avviene che ora scendendo lungo il Viale Kennedy ti accade di affacciarti improvvisamente sul mare aperto con lo sguardo che si perde all'orizzonte non più vincolato da obbrobriose strutture in cemento. L'impatto è emozionante e sensazioni stupende da tempo assopite riemergono con inebriante prepotenza e subito ti assale dolce e struggente il desiderio di allungare le mani per cogliere e far scorrere fra le dita quell'acqua limpida e azzurra che ti si stende innanzi. Ti senti mancare quasi il respiro, tanto è lo stupore suscitato da quello spazio che ti avvolge inaspettatamente quasi senza confini, limitato soltanto da quella torre che si staglia netta e maestosa sull'isoletta di fronte e che si direbbe sorta quasi a simbolo protettivo. Caduto il velo dell'oscurantismo, il mare sembra correrti di nuovo incontro per sussurrarti l'antica nenia.